Il pianto dell’unico bambino italiano: “Parlano tutti in arabo, non capisco”

Test fallito in via Paravia. Parlano i genitori di uno dei due piccoli tra 19 stranieri
Loris non vuole andare in classe. “Teniamo a casa nostro figlio e cerchiamo un’altra scuola”

di FRANCO VANNI

Adesso cercano una nuova elementare. “Ma siamo preoccupati per i bimbi arabi: come impareranno la nostra lingua se restano tra loro? Credevamo in questa scuola nella integrazione, nello scambio di culture. Siamo stati ingenui ma le istituzioni non possono esserlo”. A parlare è Giada Zaini, 33 anni. “Lui in quella classe non vuole più andare. Piange, dice che si sente diverso, che i suoi compagni fra loro parlano arabo e lui non capisce”. Loris ha 6 anni ed era uno dei due bambini italiani iscritti nell’unica classe prima delle elementari di via Paravia, assieme a 19 compagni stranieri, quasi tutti nordafricani.

“Il nostro è stato un esperimento fallito e se ci penso mi sento in colpa con Loris”, dice ora mamma Giada, che lo aveva portato in quella scuola di proposito, di modo che potesse stare con alcuni suoi compagni dell’asilo. Ragazzini stranieri, ovviamente, a cui il piccolo è affezionato. Ma una volta entrato in aula “ha capito che lì lo straniero era lui” spiega il papà, Massimiliano Casali, 33 anni, allenatore di cavalli da corsa. Da due giorni Giada e Massimiliano fanno il giro delle scuole del quartiere, chiedendo di potere iscrivere il figlio in una classe “dove ci siano almeno un po’ di italiani”. L’impatto è stato brutale. “Il primo giorno di lezioni – racconta la mamma – sono entrata nell’aula e avrei voluto fotografare i bambini, tutti insieme. Alcuni genitori, forse egiziani, me lo hanno impedito in modo brusco. Mi hanno detto che non mi sarei dovuta permettere di fotografare i loro figli, e che avrei dovuto inquadrare mio figlio da solo al banco”. Convinta che “fra italiani e stranieri non c’è differenza e l’integrazione è importante”, si aspettava un benvenuto diverso.

Per iscrivere Loris nella “scuola ghetto” di via Paravia aveva dovuto bisticciare con Mara, la suocera, che l’aveva messa in guardia: “Una scuola senza italiani è una cosa fuori dal mondo”. Giada ha tenuto duro. Pensava che il fatto di avere in classe un paio di amichetti sarebbe stato più importante rispetto alla nazionalità dei compagni. Ma alla prova dei fatti si è dovuta ricredere. Se l’episodio della fotografia ha fatto vacillare la convinzione multiculturale della mamma, il papà ha capito in quale situazione era finito suo figlio quando ha chiesto alla preside di iscrivere il bambino all’ora di religione. “Non sono cattolico praticante – racconta – ma mi sarebbe piaciuto che Loris la frequentasse. Sua nonna ci tiene, e il cattolicesimo è una parte importante della nostra cultura. La preside mi ha spiegato che però rischiava di ritrovarsi solo in classe, dal momento che tutti gli altri bambini avrebbero probabilmente scelto l’ora alternativa”. Tornato a casa la sera, arrabbiato e deluso, ha dovuto consolare il figlio in lacrime, diverso perché italiano. Ed è finita così l’avventura dei genitori di Loris, la cui buona volontà di integrazione si è schiantata contro il disastro dell’amministrazione. E lo stesso destino subirà l’altra bimba italiana della classe: i suoi genitori stanno cercando un’altra scuola.

In via Paravia ci sarà quindi una prima elementare composta solo da bambini stranieri, una classe che in realtà non dovrebbe esistere. Il ministro Gelmini ha infatti varato un regolamento che prevede il tetto del 30 per cento per gli stranieri in ogni classe, per mettere fine “alle scuole ghetto”. Peccato che, a forza di deroghe, in Lombardia il principio non sia stato applicato in nessuna delle 129 scuole che sforavano il tetto. Oltre a via Paravia ci sono molte altre classi dove gli italiani sono minoranza. Alle medie di via General Govone, ad esempio, è italiano uno studente su tre: il famoso 30 per cento, ma al contrario.

“Adesso la nostra unica preoccupazione è trovare una nuova scuola per Loris – dice Giada – siamo stati ingenui, ma le istituzioni non possono esserlo. Lo dico anche per i bimbi stranieri: come potranno imparare bene l’italiano se non lo parlano nemmeno fra di loro?”. Il direttore scolastico regionale Giuseppe Colosio, a cui Giada e Massimiliano hanno scritto ieri per raccontare la loro vicenda, da un anno e mezzo promette che “presto l’inaccettabile situazione di via Paravia sarà affrontata”. Per ora di concreto c’è la convocazione di una riunione con la preside Agnese Banfi, in programma domani “per chiedere spiegazioni”.